Le colline del Prosecco

Respirano. Si incontrano, si incrociano, si sovrappongono. Si acciambellano l’una accanto all’altra, con movenze morbide, civettuole, voluttuose, virtuose, smaliziate. Amoreggiano anche a cauta distanza. Verdeggiano, per lo più. Ma le loro trine/trame di filari, viottole, sterrati, strade, chiocciole di borghi, case sparse, cittadine, rive, terrazze, timbri di tetti e tettoie si trasformano con la luce, le penombre, le brume, le nevicate, l’afa piena e pigra di certi mesi estivi. Si concedono alla muta nelle stagioni, quattro o otto, a seconda delle rivoluzioni del clima. Le colline del Prosecco per Dino Buzzati sono “una scenografia di un pittoresco addirittura esagerato: da prendere di peso e appendere in sala da pranzo”.
Più che colline, per Giuseppe Mazzotti, sono poggi e “nascoste valli” dove “si raccolgono le uve bianche che danno vini leggeri, frizzanti e amabili”, tra i quali – oltre una scuola enologica che quei vini li studia e li perfeziona – vi si trovano “cantine grandiose, fabbriche di vini spumanti, di botti, di fusti (…) e mescite senza numero”.
Le colline del Prosecco – arrivando dalla pianura – sono l’ultimo universo poetico del territorio: “Una barriera pedemontana – scrive Lucia Tumiati – che diverrà improvvisamente montagna brulla, scura, simile a tanti elefanti accovacciati e sonnolenti”.
Nelle parole d’autore, petali del florilegio che incornicia le splendide fotografie di Francesco Galifi, le colline del Prosecco si prestano a essere rappresentate attraverso figure retoriche.
A volte suggeriscono metafore o similitudini inquietanti (per Fulvio Ervas, le stradine che le percorrono sono “serpenti grigi” e località come Valdobbiadene, Guia, Santo Stefano, Cison di Valmarino… sono come “le stazioni di una via crucis alcolica”), a volte prendono vita e moto iperbolico (“…in casa del nonno – scrive Gabriella Lapasini – la collina entrava dalla finestracon gli alberi e il muschio…”), a tratti inducono a uno stupore e a una sorpresa che richiedono l’esclamazione: “E, oh, lo spettacolo sublime che ci s’è allargato davanti agli occhi”, appunta Ardengo Soffici, nel 1918, dall’alto del castello di Conegliano. Non senza ragione, lo scrittore Chino Ermacora, nel 1942, più che descrivere il paesaggio del Cima, lo assapora. E certo “il delizioso vino color dell’oro”, rimasto nelle parole di Soffici nella Ritirata del Friuli del 1919 non può che avere la parte che gli spetta: quella del protagonista.
Emanuela Da Ros